Casa

di Marilynne Robinson.

Glory Boughton ha trentotto anni quando una delusione amorosa la riporta nella natia Gilead per occuparsi del vecchio padre e della consunta casa avita. Il fratello Jack ne ha qualcuno di più allorché, pochi mesi più tardi, bussa alla stessa porta in cerca di un approdo per il suo spirito tormentato. Le braccia del patriarca si aprono ad accogliere il più amato dei suoi otto figli, il più corrotto, il più smarrito. Ma il suo cuore e la sua mente faticano a fare altrettanto. Nella versione robinsoniana di quella che l’autrice definisce la più radicale delle parabole evangeliche – capovolgendo, come fa, le nozioni di merito e ricompensa -, l’accento cade sul momento successivo a quello della festosa accoglienza: il momento del perdono, della piena reintegrazione nella casa del padre, laddove il limite umano si fa più invalicabile. Il terzo romanzo di Marilynne Robinson ci ripropone un mondo familiare: l’immobile cittadina agraria di Gilead, “fulgida stella del radicalismo” nella sarcastica rivisitazione di Jack; la metà degli anni Cinquanta, con i loro scontri razziali e la loro sedata quiescenza; il venerabile pastore presbiteriano Robert Boughton, ormai troppo stanco, e i suoi due figli più interessanti, la dolente Glory e l’oscuro Jack. Stesso luogo, tempo, personaggi del precedente “Gilead”, dunque (compagno contiguo anziché sequenziale di questo “Casa”), ma diversa prospettiva a illuminare da un’altra angolazione più trascendente e insieme il più terreno dei temi: ‘nostos’, il ritorno a casa.

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